'Tu che mi dovevi amare' in una recensione di Giovanni Di Lena

La Casa Editrice Mannarino ha dato alla luce un nuovo libro “Tu che mi dovevi amare” di Maria Antonietta D’Onofrio che, per il fatto di essere una raccolta di poesie, potrebbe sembrare una novità all’interno dell’attività letteraria della nostra autrice, ma così non è perché anche i tre romanzi: “Ora aspetto la vita che mi cerchi”, “Il silenzio che racconta la vita e il rosmarino” e “Poeti di mandorla amara” pubblicati in precedenza da Maria Antonietta D’Onofrio presentano, sebbene scritti in  prosa, delle pagine di vera poesia.
La silloge si snoda attraverso cento pagine nelle quali, mettendo a fuoco la questione della violenza sulle donne (problematica purtroppo molto attuale), sollecita una riflessione più ampia sullo stato attuale della condizione femminile.
La poesia “Sogni come creature” di pag. 29 rappresenta efficacemente il percorso fatto dalle donne per farsi riconoscere gli stessi diritti dei maschi, le battute d’arresto nel loro processo di emancipazione e le contraddizioni che caratterizzano la situazione contingente: la soddisfazione di aver stretto in pugno sogni “creduti irraggiungibili”,della prima strofa, cede il posto, nei versi successivi, al disappunto per le conquiste perdute e alla ribellione con conseguente presa di posizione “Non è questo che vogliamo!”, ma sfocia infine nella paura di “morire all’improvviso senza aver capito chi sono. Senza essere stata libera e donna”.
Oggi le donne libere e realizzate sono tante (l’autrice è una di loro), ma non si può negare che anche nella nostra società occidentale altrettanto numerose sono ancora quelle costrette a stare nell’ombra, a vivere una dominata dalla paura e a subire violenze di ogni tipo proprio da quelli che dovrebbero amarle e proteggerle: mariti ed a volte anche padri e fratelli.
La capacità di sopportazione delle donne, se da una parte, le rende capaci di amare in modo smisurato “sono quella  che ama anche il vuoto che lasci” e rende i figli “Orfani” tra l’indifferenza generale, dall’altra non impedisce ad “Arin” di compiere un gesto estremo per salvare la propria dignità e la propria libertà, ma soprattutto non spegne la voglia di riscatto delle donne che vogliono “cantare la loro storia”. Il libro, infatti, nell’evidenziare tutte le storture che la stupidità umana è capace di creare non vuole essere solo un atto di accusa nei confronti degli autori di quelle storture, ma vuole essere un invito ad andare oltre le stesse. Vuole essere, come afferma Antonello Lombardi nella prefazione, “un valido contributo al processo di sensibilizzazione, un’indicazione su come affrontare il problema del femminicidio, uno spunto, un’idea di cambiamento nella gestione della violenza di genere”.
L’autrice, inoltre, con questo libro sembra voler onorare un impegno preso con quelle stelle “aggrappate al mantello dell’aria” che ci ricordano di ricordarle e Maria Antonietta lo fa dando voce ai loro pensieri ed esprimendo ciò che loro hanno dovuto tacere. Si definisce “una di loro” fino a diventarlo veramente in “Arin” (ma non solo in Arin) dove il verbo coniugato alla prima persona singolare “ho puntato”, “l’ho fatto” annulla la distanza tra la poetessa e la protagonista della poesia che diventano una solo donna. Forte è quindi in tutto il libro l’invito alla solidarietà femminile e altrettanto forte è l’invito al dialogo e all’amore “siamo tutti complici, se stiamo in silenzio. Siamo tutti perdenti, quando perde l’amore”.
Dialogo sincero e Amore vero sono i soli strumenti in grado di farci superare le difficoltà di comprensione tra gli uomini in generale ed in particolare tra le due metà che compongono il cielo.

Giovanni Di Lena

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