Il valore del silenzio, enorme e sottovalutato

Ci sono posti non avvezzi a fare i conti con certi accadimenti relegati nell’immaginario collettivo a luoghi lontani. La crudezza della realtà, a volte, costringe chi li abita ad interrogarsi su una dimensione sociale ed umana insolita per le abitudini da locus amoenus, una dimensione che resta nell'ombra (o che non si vuole vedere) fin quando un fatto eccezionale, magari gravissimo, non scuote le coscienze.
L’inquietudine dura un breve lasso di tempo, poi sopraggiunge la dimenticanza e si torna alla solita routine, quella nella quale, ad esempio, un ragazzo “difficile” è percepito esclusivamente come individuo da cui tenere alla larga i propri figli e non come soggetto da aiutare, almeno non in prima persona. Nella solita routine che, esauriti gli afflati samaritani, presto tornerà, un diverso, un disagiato, un bisognoso, un violento, è per lo più fardello da cui tenersi alla larga, non occasione per coltivare quella solidarietà sociale che oggi viene invocata a gran voce con ampia disponibilità all’autocritica.
Trascorsi i giorni dei mea culpa collettivi, quelli in cui arguti pensatori e personaggi pubblici abituati a fare chiose e passare oltre si affannano a ricordare che "siamo tutti responsabili" e che "potevamo fare qualcosa", la gestione di casi delicati sarà nuovamente in capo ai pochi soggetti che per ruolo o indole sono chiamati ogni giorno, lontano dai clamori, a farsene carico e che si arrangiano come possono, a fatica e fra l’indifferenza dei più.
Nel frattempo l'affollata comunità dei moralizzatori riprenderà, per lo più, a voltarsi dall'altra parte, avendo perso una buona occasione per riflettere in silenzio e fare esercizio di coerenza con la proprio quotidianità.

Roberto D'Alessandro

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