Lo stabilimento della ex Materit in Basilicata, che ha prodotto manufatti in cemento-amianto (eternìt), è oggi un monumento all’idiozia. Da un lato, rappresenta la logica dell’amministrazione straordinaria al Sud, che ha dominato l’Italia in passato producendo solo cambiamenti di nomi societari, cassa integrazione, abbandono di lavoratori e danni a salute pubblica e ambiente. Dall’altro, uno scenario attuale entro il quale si fanno affari e soldi per bonificare aree che restano contaminate, mentre i giovani scappano, le fabbriche chiudono, e la curva dei tumori aumenta in controtendenza rispetto al resto del paese.
Fantasmi del Sud – Meglio morire di cancro che di fame. È il cinismo con cui negli anni Ottanta un sindaco liquidava gli operai della Materit in Valbasento. Così va la vita. Sulla base di questo ricatto esistenziale si è continuato a lavorare amianto fino al sequestro dello stabilimento e alla definitiva chiusura nel 1989 ad opera del Nucleo operativo ecologico dei carabinieri, che, in assenza d’una discarica autorizzata, ne dispose il fermo. Per un po’ qualche politico, qualche sindacalista e le comunità d’appartenenza si sono preoccupati dei lavoratori, dei loro problemi. Ben presto, però, sono stati dimenticati, perché «così va la vita – ricorda uno di loro – basta un colpo di vento è tutto finisce per essere spazzato via». Considerati “tossici”, non hanno più trovato occupazione, finendo, all’età di 40-45 anni, per vivere una condizione di mobilità che pare tutt’oggi endemica in molte altre realtà industriali lucane. E hanno visto morire compagni di lavoro e familiari, perché a fine turno l’amianto se lo portavano a casa. Sono diventati dei fantasmi. Persone invisibili perché scomode in un Sud dove forse è meglio non ricucire lo strappo prodotto tra vecchie e nuove generazioni, dove il concetto di cittadinanza attiva, capace di trasmettere un bagaglio esperienziale più critico nei confronti del mondo, anche quello del lavoro, è da tenere lontano.
La fabbrica-cimitero e la rimozione psicologica – «Si ricordano di noi – ribadiscono gli operai – solo quando qualcuno va nell’aldilà, allora dicono “ecco, quello lavorava l’amianto”». Così va la vita. È il paradosso della cultura del rimpianto, nel quale diventa possibile serbare memoria degli inferni vissuti in terra: gli ex lavoratori chiamano la Materit il “cimitero”. Poi tutto torna a dissolversi nel principio mundi dominante. E, in un luogo che vede partire migliaia di giovani all’anno per mancanza di prospettive lavorative, questo principio è il lavoro. Crudo, pericoloso che sia, ma lavoro. Non importa se ci si deve piegare al politico, al sindacalista o all’imprenditore di turno e, se c’è bisogno, non importa neppure se si scorda il passato, le consapevolezze dei padri. E spesso, sono proprio loro a incentivare questa meccanica della rimozione. Così va la vita.
Il danno biologico – 2.450 euro. È la cifra sotto la voce “danno biologico”. Risarcimento dovuto a un lavoratore dello stabilimento di Pisticci scalo in Valbasento dopo quarant’anni di professione per placche pleuriche al fegato, una patologia provocata dall’amianto. Così va la vita. Gli operai della Materit di Ferrandina raccontano invece che solo sette lavoratori hanno avuto la malattia professionale, per gli altri, nonostante i problemi di salute, «l’Inail [Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (ndr)] sta facendo di tutto per non riconoscerla».
Coloro che sono stati esposti per più di dieci anni hanno ottenuto degli abbuoni contributivi, e con gli anni che avevano lavorato nel “cimitero” e gli abbuoni sono arrivati a una pensione così misera che adesso sono costretti a tirare la cinghia, non arrivano neanche a fine mese. Per far capire l’esposizione alle fibre descrivono così l’ambiente di lavoro: «Abbiamo fatto una produzione in cui l’amianto veniva spinto con dei ventilatori in alcuni tubi e portato in un grosso silos. La fibra di solito li tappava ed eravamo costretti a stapparli con mazze, rastrelli. L’amianto fuoriusciva da tutte le parti e quando li rimettevamo in moto dentro nevicava». E poi, pulizie fatte “a mano libera”, con arnesi incompatibili e senza nessuna sicurezza. Solo negli ultimi quattro o cinque anni si lavavano le tute dopo il lavoro, prima tutti le portavano a casa, contaminando i propri familiari. Così va la vita.
Andrea Spartaco
Settembre 2009