Il bene che non fa notizia

La nostra è un’epoca particolare, per non dire strana: viviamo in una società dominata dalle immagini, dove l’avere conta più dell’essere e dove  tra l’essere e l’apparire è quest’ultimo ad avere la meglio.
Tante, forse troppe, le contraddizioni del nostro tempo: lo sviluppo vertiginoso delle telecomunicazioni ci permette, ad esempio, di sapere in tempo reale cosa accade nell’angolo più sperduto del mondo ma, al tempo stesso, non sappiamo cosa succede nella casa accanto alla nostra. Questo perché tra vicini, spesso non ci si conosce e, in nome della privacy, ci si limita a scambiarsi solo dei saluti frettolosi, ma non si prova scrupolo alcuno quando, attraverso l’occhio indiscreto delle telecamere, ci si intrufola nelle case altrui, come puntualmente avviene quando si verificano delle tragedie familiari. Di fronte al clamore di tali vicende spesso mi chiedo cosa spinge la gente a seguirle con tanto interesse e cosa spinge i familiari delle vittime ad accettare di essere ospiti di trasmissioni televisive dove, raccontando i fatti, si trasforma il proprio dolore in spettacolo. Lasciando cadere le insinuazioni di chi sostiene che il tutto viene fatto per riceverne un compenso economico, mi piace, a volte, pensare che la molla sia il desiderio di evitare che simili episodi possano ripetersi ancora.
Analogo discorso si potrebbe fare per la scienza in generale e per la medicina in particolare: sembra che la nostra società riponga una grande fiducia nello sviluppo delle scienze mediche tanto da sostenere varie campagne per ottenere i fondi da destinare alla ricerca scientifica ma, al tempo stesso, si registra una grande diffidenza verso i medici che sono spesso messi sotto accusa. E sarà, forse, per il fatto che io sono il prodotto di quest’epoca contraddittoria che parlo di buona sanità riferendomi ad una recente esperienza familiare, conclusasi tristemente: sono tornato a casa seguendo il carro funebre dentro il quale c’era mio cognato. Si, anche qui da noi esiste la sanità che funziona e quando dico - qui – intendo dire al Sud, al meridione d’Italia; nel caso specifico ho visto la sanità che funziona non nel policlinico di una grande città, ma nel piccolo ospedale di Policoro (prov. di Matera), ubicato nella fascia ionica della nostra sconosciuta Lucania.
Espongo brevemente il caso: la sera del 24 dicembre 2013 mio cognato viene colpito da infarto, soccorso tempestivamente dai medici del servizio del 118 e trasportato d’urgenza all’ospedale “Giovanni Paolo II” di Policoro, viene ricoverato nel reparto di terapia intensiva (UTIC) dove resterà solo una notte. La mattina seguente, infatti, il dottor Castellucci, uno dei medici del reparto Rianimazione, ci comunica che, date le condizioni del paziente, è necessario trasferire lo stesso dal reparto UTIC al reparto Rianimazione, dal quale mio cognato non è più uscito, o meglio, è uscito su una barella e avvolto in un lenzuolo, nella notte tra il 30 e il 31 gennaio 2014.
Visto l’esito della vicenda, come posso parlare di buona sanità?
La ragione risiede nel comportamento dei medici e di tutto il personale infermieristico del reparto di  Rianimazione con i quali posso dire di aver convissuto per tutti i 37 giorni della degenza durante i quali la sala di attesa del reparto era diventata la casa di famiglia.
I medici, Francesco Dimona , Antonio Mazzarella, Maurizio Cursano, Nicola Maratea e  Paolo Salomone, oltre al già citato Giuseppe Castellucci, hanno dimostrato non solo grande professionalità ma anche disponibilità, gentilezza e umiltà, tutte virtù molto rare in questi tempi. Hanno messo in campo le loro competenze; hanno rivisto le proprie conoscenze studiando e analizzando il caso approfonditamente; dimostrando grande onestà intellettuale non hanno esitato a contattare diversi centri di eccellenza presenti sul territorio nazionale; si sono attivati per fare arrivare delle macchine appositamente per il mio familiare che, grazie alla loro capacità di fare empatia, credo fosse diventato, col passare dei giorni, anche un po’ “loro” familiare. Nei confronti della famiglia, che è stata sempre informata di tutto, anche delle cose che non avrebbe voluto sapere, hanno dimostrato massima comprensione e nei confronti dei ragazzi (i figli del paziente) grande umanità e, in diverse occasioni, oserei dire anche affetto. Non hanno avuto nessuna remora quando la famiglia, cedendo un po’ alle pressioni di gente estranea che le chiedeva come mai continuasse a tenere il proprio caro a Policoro e non lo trasferisse in qualche altro posto, ma soprattutto volendo fare di più (e non, quindi, per sfiducia nei loro confronti), ha chiesto di poter ascoltare il parere di altri medici. Ricordo che il primario, ascoltata la richiesta e resosi conto che la stessa procurava alla famiglia un certo disagio, interruppe il discorso di scuse che l’accompagnava ed aggiunse che lui si sarebbe comportato allo stesso modo; accolse, quindi, la richiesta e si confrontò con il collega che la famiglia aveva interpellato. Per mio cognato, purtroppo, non c’è stato nulla da fare, ma il triste epilogo della vicenda non è stato determinato né dall’ignoranza né dall’incompetenza o, peggio ancora, dalla superficialità che  spesso è la causa di tanti casi di malasanità che riempiono le pagine dei giornali.
Riflettendo su questa esperienza, mi è  tornata  in mente la domanda: “Cosa spinge la gente a parlare delle proprie vicissitudini?”  
Onestamente non so cosa possa spingere gli altri ma so perché lo sto facendo io: sento il dovere morale di dare rilevanza al bene di cui sono stato testimone e che spesso non fa notizia. La gente, infatti, manifesta una curiosità morbosa nel voler conoscere i minimi particolari dei casi di cronaca nera e di malasanità, ma dimentica in fretta e tace addirittura quando le cose vanno diversamente. All’ospedale di Policoro non ho visto solo medici svolgere il loro lavoro, ma persone impegnate nella loro missione e, nella nostra società, sempre più spersonalizzata e tutta protesa alla logica del profitto e dell’efficienza più che all’efficacia delle azioni, non è poca cosa. Mi auguro che questa mia testimonianza possa far cambiare idea alla gente comune, sfatando  il pregiudizio che l’ospedale di Policoro non funzioni molto.
Certo la mia esperienza fa riferimento al reparto di Rianimazione, ma poiché sono convinto che ogni ospedale debba essere pensato come un insieme di parti interconnesse e interdipendenti tra loro, dove il buon funzionamento di tutto il sistema non può prescindere dal buon funzionamento di ogni singola sua parte e viceversa, ho ragione di credere che anche gli altri reparti funzionano bene. Lungi da me l’idea di parlare dell’ospedale di Policoro come di un’isola sanitaria felice, probabilmente anche qui molte cose non vanno come dovrebbero e anche qui si commettono degli errori, ma se non si può generalizzare la positività della mia esperienza non si deve nemmeno generalizzare la negatività di altre, non si può, insomma, buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Vorrei infine che i politici e quanti hanno delle responsabilità a livello di gestione e organizzazione o, come spesso si sente dire, di razionalizzazione delle strutture, rivedessero le loro posizioni e non pensassero solo a ridimensionare, ma prendessero in considerazione l’idea di ampliare e valorizzare quanto attualmente già esiste. Questo mio desiderio scaturisce dalla constatazione che si può fare qualcosa di buono anche in un piccolo centro; se lo stesso viene, poi, dotato anche dei mezzi giusti il buono lo si può fare quotidianamente e credo che per i medici, che io ho conosciuto, possa essere questa la gratificazione più grande. L’epilogo della vicenda, ripeto, non è stato quello che la famiglia sperava, ma di questo non si può far colpa a nessuno perché probabilmente il Primario di tutti i primari, conoscendo mio cognato il cui unico difetto era quello di essere troppo buono, l’ha voluto con Sé. La famiglia è addolorata, ma di fronte alla volontà divina, parafrasando un verso manzoniano, possiamo solo: “chinar la fronte al Massimo Fattor”.

Giovanni Di Lena

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