29Aprile2024

Sei qui: Home Politica Le funzioni disattese dalla politica. Lettera all'assessore Viti

Download Template for Joomla Full premium theme.

Deutschland online bookmaker http://artbetting.de/bet365/ 100% Bonus.

Online bookmaker bet365

Le funzioni disattese dalla politica. Lettera all'assessore Viti

Carissimo Vincenzo Viti. Voglio incominciare così, nel classico dei modi questa lettera aperta proprio come la mia maestra, alle scuole elementari, ci insegnò. Certamente non voglia essere questo mio incipit motivo di maleducata ed eccessiva confidenza ma solo il modo di chiamare con quel sigillo semantico con cui la nostra famiglia, la nostra storia, ci ha voluti segnare sin dalla comparsa su questa terra. Del resto, davanti a Dio siamo conosciuti come tali, col nostro nome e siamo uomini tra gli uomini e con esso segnati indissolubilmente.
Vorrei fugare ogni tentazione di un disattento lettore che potrebbe accusarmi di filosofare lungo il presente breve cammino: ebbene, egli avrà ragione sul carattere del contenuto, ma non avrà nessuna ragione nel formulare un’accusa, in quanto solo con esso potremo operare quel salto o kolpos, come lo definivano i nostri progenitori greci, su tutto il pragmatismo normativo creato per servire le necessità nate dall’aspetto filosofico della tendenza a riunirsi in consorzi nazionali.
Ritengo dunque necessario ragionare senza ascoltare i rimproveri di sprovveduti e aridi ministri che “son al governo per far quadrare i conti”. Affermo di essere avvezzo ai numeri ma soprattutto la mia formazione mi ha reso avvezzo a comprendere che le leggi, nate per descrivere fenomeni fisici, frutto delle speculazioni scientifiche, sono a servizio della logica ma soprattutto di quell’espressione umana atta a migliorare la vita di tutti. Con tale premessa, dimmi, come posso io accettare di essere dominato da un numero? Occorre necessariamente andare alla radice del problema e verificare che il segno, il numero, generato da una “norma” è impietosamente errato malgrado un’equazione affermi il contrario. Semplice: l’equazione è sbagliata! Nelle equazioni di voi governanti, spesso manca una variabile: la vivibilità diffusa.
È facile comprendere che per vivibilità non voglio assolutamente intendere sopravvivenza ma sia essa espressione di un equilibrio che diffonda una felicità tra le genti, di nominato consorzio, in maniera ritmica tale da produrre un’amplificazione dei suoi benefici in numero e tempo.
Le riflessioni in questo tempo di crisi sono tante e gli elementi che spingono a generarle sono sempre maggiori, fomentate da espressioni disdicevoli di individui addestrati a schiacciare la dignità della stragrande maggioranza della gente che intende solo “vivere”.
Ricordo ancora i miei giorni di scolaro quando un’adorabile maestra, una missionaria dell’istruzione primaria oserei dire, Italia Guadagnolo Malvasi, ci insegnava con passione quegli elementi di educazione civica utili a farci sentire fieri di essere fratelli d’Italia. Ci parlava di voi amministratori locali e del governo come di persone appassionate che, possedendo adeguate capacità, alzavano la mano tra tanti e si offrissero per alleviare i problemi di coloro che gli accordavano la fiducia. Immaginavo, nei sogni di bambino, di essere protetto, di essere guardato con occhio di riguardo e benigno da tutti. Quando si parlava del presidente della Repubblica, poi, qualche lacrima di commozione scappava trovandoci davanti al padre supremo della Nazione! I più capaci che si sacrificavano, questo immaginavo, proprio come quegli impavidi giovani che in varie battaglie, soprattutto del primo conflitto mondiale, hanno sacrificato le loro vite sentendo alle loro spalle le preghiere di protezione elevate dalle donne, dagli anziani, dai bambini presenti allora, ma anche futuri, cioè NOI. Queste le sensazioni che, crescendo, sono state disattese da un mondo sempre più volto all’interesse personale.
Non penso di tingere di macabro la presente se faccio risuonare quel monito di quei religiosi che peregrinavano nelle città durante il medioevo dicendo: “Memento mori, frater!”. Tutto il mondo è palcoscenico e ciascuno recita la sua parte. Tuttavia pur se stesse per calare su di noi un gran sipario, ognuno di noi spera sempre di esser stato degno della parte che, nel dramma della vita, ha recitato. Tuttavia viviamo in un paradosso. Ciascuno di noi tutti vive per donare vita e per portare da una generazione a quella successiva un'eredità senza testamento. Eppure ogni generazione vive nell’oblio delle precedenti. Senza un testamento o, fuor di metafora, senza tradizione alcuna, non c’è più nessuna storia di uomini e di donne, e il tempo manca di ogni continuità trasmessa con azioni volontarie. Verrebbe spontaneo dire allora che viviamo in assenza di un passato e senza un futuro, ma soltanto una ciclica vita. Questo condurrebbe all’estinzione dei cervelli, proprio come sta accadendo qui, da noi, in questa epoca di annichilimento culturale e di affidamento ad assurdi risultati evitando di rileggere e reimpostare le equazioni con nuovi parametri.
Spiegami ora, dall’alto della tua esperienza, quale il beneficio che ne ricaverei come individuo nel continuare a vivere al tuo fianco e a quello di pochi altri: diritti ridotti al minimo se non quello del silenzio; istruzione azzerata nell’essenza oltre che nella forma; previdenza sanitaria di fatto inesistente (non scendiamo in una banale dialettica dicotomica tra teorizzazione e realtà, saresti facilmente prevaricabile a meno che non mi tolga il diritto di replica ad libitum); impossibilità di evolvermi come essere umano (a meno che tutto ciò non avvenga in corridoi e stanze di consessi politici).
Volutamente ho dimenticato una cosa: il diritto al lavoro. Non discutiamo i benefici sociali, spirituali, antropologici di tale ricchezza prodotta da un’atavica concezione organizzativa della società, ma è fuor di dubbio che porta dei benefici e, in termini scientifici (non come erroneamente si sente abusare dialetticamente in ambiente politico) quando qualcosa funziona, va perseguito. Molto spesso sento degli offensivi inviti alla riqualificazione: di quali opportunità parlate, se anche la terra, quella che dava il misero pane ai nostri progenitori, è stata violentata a colpi di perforazioni, di metalli pesanti, esposizioni ad altri elementi chimici dannosi, o a un inquinamento di tipo fisico? Ci avete regalato, con la scelleratezza di allegri guastatori, malattie dai nomi impronunciabili, costringendoci a elemosinare viaggi della speranza più simili a pellegrinaggi medievali. Dinanzi a tutto questo, dunque, che necessità abbiamo di stare sotto l’egida di una nazione? Abbiamo ragione di pensare che siamo prigionieri e schiavi? Se voi, nostri governanti, non siete capaci di impedire che i numeri ci sovrastino e schiaccino, cosa continuate a fare? Diteci una parola, solo una ci basta, ma che sia sensata!
Ci state togliendo la dignità di sentirci uomini tra gli uomini. È con questo sentimento di morte nel cuore che dico, con estrema convinzione, che noi non serviamo, non serviamo a nulla e pertanto non serviamo nemmeno a mettere la croce sul vostro nome, lo stesso segno che ci accomuna nella sofferenza a quel Cristo sulla croce.
Se dovessi scegliere un aggettivo per tutto direi “sporco”.
Sporco come il gioco che continuate a fare, malgrado le vostre capacità non tramutate in competenze.
Sporco come il letto dei fiumi e degli invasi o delle sorgenti delle acque che beviamo.
Sporco come l’iter da seguire per servirci dei nostri spettanti diritti in un consorzio, ormai non conveniente.
Sporco come il sentimento che accomuna quanti continuano a progettare leggi chiusi nelle sezioni dei partiti o in aridi uffici cristallizzati di disumanità.
Sporco come il pane che siam costretti a raccogliere da terra per poterci nutrire perché il nostro istinto è quello di vivere.
Un monito me lo sento di dare: il popolo per quanto annichilito possa essere, dorme, non muore. Il problema è quando deciderà di svegliarsi: allora, come fiume in piena, non potrebbe tenere in considerazione di nulla, ma vorrà solo riprendersi il suo alveo per correre più in fretta verso il suo mare!
Quel che chiediamo non è certo lo stato di ignavia sociale alla quale la mobilità ci ha relegato, ma reclamiamo il diritto al lavoro, in una regione spacciata per produttiva, ma che fa fuggire i propri figli! Vi consiglio di estendere il diritto di voto alle pecore e alle galline in quanto, presto, rimarrete solo in loro compagnia.

 

Giuseppe Ranoia OPERAIO Nylstar 1 in mobilità in deroga